Parliamo di...
INTERVISTA AD ASCANIO CELESTINI
Laura Gioventù incontra Ascanio Celestini.
Giovedì 18 novembre presso il cine-teatro Alecchino di Monte Urano, in occasione della VII edizione del premio letterario nazionale "Paolo Volponi", Ascanio Celestini ha messo in scena per il suo spettacolo "Racconti" e noi, poco prima che salisse sul palcoscenico, lo abbiamo preso in ostaggio e ci siamo fatti raccontare cosa pensasse su gioventù, memoria, tempo, monologhi, provincia e teatro con sincerità e simpatica timidezza.
Che cosa le viene in mente se le dicessi gioventù, penserebbe solo al mio cognome oppure a qualcosa che sfugge anche se tutti lo hanno avuto nelle mani?
Non perché lo dica io prima di qualcun altro, ma perché la strada che è stata imboccata in questi ultimi anni, è l’idea che il Paese intero sia più che giovane…sia una sorta di “adolescente”.
Lo disse Berlusconi qualche tempo fa dicendo che l’italiano medio è come un bambino della seconda media che non siede nemmeno nei primi banchi.
Però effettivamente è vero, la cultura che si esprime in maniera più diffusa, ovviamente parlo dei prodotti culturali più diffusi, per la massa, così come è organizzata l’informazione piuttosto che la politica, in generale sembra come se si rivolgesse esclusivamente ad un gruppo di adolescenti.
Ma anche banalmente nella moda, è come se i vestiti fossero tagliati esclusivamente per adolescenti. Come se anche la sfera sessuale è vissuta come se il popolo fosse tutto adolescente, ma anche nel lavoro, l’idea del lavoro flessibile appartiene ad un ragazzo che ha sedici /diciassette anni, che fa il lavoretto estivo per pagarsi le vacanze insomma per cui …dall’altra parte tutto questo ritorno alla cultura giovanilistica poi ricorda molto quella del fascismo. A parte la canzone goliardica “giovinezza giovinezza” che non nasce con il fascismo ma identificava chiaramente quella che era la cultura del tempo: bisognava essere giovani, efficienti, spensierati.
È un po’ quello che viviamo oggi.
Se accendiamo la televisione vediamo persone di cinquanta sessant’anni, uomini e donne indifferentemente, che si comportano e parlano come ragazzetti di quindici.
Non è un caso che il calcio abbia così tanto successo perché poi la tifoseria esprime proprio la rabbia insensata che ha un giovane.
C’è un sociologo filosofo spagnolo, che si chiama Santiago Lopez Petit, che dice questo, è il dire niente con rabbia. Questo è quello un po’ quello che vedo….anche la Lega è un po’ così…dire niente con rabbia, molta rabbia per poi in realtà non dire quasi niente.
Proviamo a spiegare le nuove forme di poesia dei giovani, le canzoni per esempio. “Siamo figli di mondi diversi, una sola memoria che cancella e disegna distratta la stessa storia” Tiziano Ferro
Secondo me non significa quasi niente, è solo una maniera per mettere in fila le parole.
La memoria non è una sola, noi stessi, ognuno di noi personalmente ha tante memorie differenti e spesso non sappiamo neanche bene cosa realmente è accaduto, che cosa ricordiamo e cosa realmente abbiamo dimenticato, per cui, tanto meno io, penso che ce ne sia una sola che riguardi non mille ma anche solo due persone. Facciamo un viaggio insieme e ci ricordiamo cose diverse oppure le stesse cose hanno prodotto impressioni differenti. La realtà è una deduzione rispetto a quello che viviamo realmente e anzi si avvicina di più al concetto di realtà il racconto di quello che viviamo piuttosto che quello che viviamo davvero, perché finché lo stiamo vivendo è un po’ come, tornando al calcio di prima, la telecronaca di una partita, non sappiamo come va a finire per cui non riusciamo neanche a delimitarla e mondi diversi….non lo so…è una canzone…
Con l’avvento del cinema e della fotografia si sta perdendo il senso della morte, oramai sembrano tutti ancora vivi e vegeti vedendoli alla televisione e alla fine nessuno muore più veramente. Facilitano il ricordo e la memoria…
Vero, ma prima ancora che il cinema e la fotografia questo lo ha fatto in maniera anche più potente la stampa….oramai l’impressione rispetto a Gutenberg è andata scemando nei secoli, però è la riproducibilità tecnica che produce questo effetto, il fatto che tu puoi continuare a confrontarti con qualcuno o con qualcosa a prescindere dal fatto che questa persona ci sia o non ci sia, esista o non esista.
Allora, fin quanto l’oggetto passa attraverso un’altra persona per cui fin quanto sono io che racconto una storia di mio nonno, che sia morto oppure ancora vivo a te in fin dei conti interessa poco, perché è viva la sua storia.
Nel momento in cui vedi l’immagine filmica televisiva o una fotografia piuttosto che un suo oggetto personale o una cosa scritta da lui chiaramente si salta un passaggio, non c’è più una mediazione e l’oggetto è percepito in maniera diretta.
Però credo che in questi ultimi anni stia succedendo una cosa molto più affascinante e forse anche più pericolosa, ovvero sia l’accesso alle diverse stratificazioni temporali, quindi la possibilità di vedere una fotografia di Mazzini piuttosto che un film degli anni trenta oppure degli anni sessanta, rivedere in televisione una trasmissione che andava in onda negli anni ottanta, questo fa si che noi abbiamo una lettura del tempo passato che è tutto il tempo, chiaramente come se tutto fosse recuperabile. Siamo passati da un idea del tempo ciclico, tipico delle culture orali che vedevano nella ciclicità il ritorno dei giorni, l’alba, il tramonto, le stagioni e quindi l’idea di un tempo che torna sempre, ad un tempo lineare che è quello storico, adesso siamo finiti in un tempo che è una sorta di griglia dalla quale noi possiamo pescare un po’ quello che vogliamo. Il problema poi è che il tempo non è né ciclico né lineare…né una griglia, ma è sempre il nostro interiore, però è sempre a nostra percezione…
Il tempo è un nemico o un alleato, che cos’è il tempo e come lo percepisce un attore che recita anche commedie senza tempo?
Volgarmente è anche un nemico, perché se stai in tournee devi arrivare in orario e il tempo diventa più quello misurato dall’orologio che non quello percepito. Il tempo è sicuramente una delle risorse che di più ci sta sfuggendo dalle mani. È un oggetto che ancora non possiamo comprare ma che stiamo, che vorremo controllare, però lo confondiamo molto con l’orario, con i tempi del lavoro.
Per dire. Marchionne si lamenta del fatto che i suoi operai in Italia non producono abbastanza e che negli stessi tempi in Brasile producono di più, e nelle fabbriche fino a qualche anno fa c’èra un ufficio tempi e metodi per ottimizzare un lavoro che non significa, poi migliorare la vita dell’operaio, anzi, significa avvicinarlo sempre di più da una macchina che funziona bene, il problema è che noi non siamo delle macchine anche volendo e quindi abbiamo bisogno di un tempo, di un tempo assolutamente flessibile e non dare flessibilità al lavoro. Perché in tal caso è il lavoro che diventa flessibile e il tempo non lo è più. In qualsiasi momento cerco di metterci dentro un lavoretto perché devo pagare l’affitto e tutte le altre cose… noi abbiamo proprio bisogno di recuperare il tempo. Il tempo del non lavoro. Abbiamo bisogno di una casa ma abbiamo anche bisogno del tempo per starci dentro, abbiamo bisogno di un tempo pubblico mentre invece abbiamo sempre di più un tempo che compriamo… due ore in pizzeria. Un tempo nel quale non siamo clienti. Un tempo pubblico nel senso che quando esco dalla mia casa privata normalmente vado a passare del tempo in un altro luogo privato…ristorante, trattoria, un cinema, un teatro e allora sembra che la differenza sia tra un consumo di qualità e un consumo che non lo è, e allora chi va a teatro è una persona intelligente mentre chi invece va a vedere un filmaccio di sparatorie americane è uno scemo, però in realtà entrambi stanno spendono dei soldi per occupare uno spazio privato in un luogo privato. Mentre invece noi abbiamo bisogno proprio della piazza del muretto al limite, della strada, della scuola pubblica, ma non perché quella pubblica sia migliore della privata, ma perché la scuola pubblica è nostra e alle 4 e mezza del pomeriggio, quando mio figlio esce da scuola, io dovrei poter dire… beh passiamo altre due ore in questo luogo perché è pubblico… e quindi non ha un limite. Questa è un’idea che noi stiamo perdendo quasi completamente...
Lei si candiderebbe in un partito, semmai un giorno le venisse in mente di farlo, perché sente di dare una mano oppure perché in teatro ai suoi spettacoli non va più nessuno?
Come alternativa al lavoro preferirei andare a fare il cameriere piuttosto che candidarmi.
Prima cosa credo che ci sia una grossa differenza tra gli amministratori locali, il sindaco di un piccolo centro per esempio, rispetto alla politica dei partiti. In un piccolo Comune o una circoscrizione romana trovi una pulizia nella politica che nei partiti normalmente non trovi. Non mi candiderei in politica così come non diventerei sindacalista. Penso che la delega sia un male minore. Delegare qualcuno in parlamento, il voto e mandare qualcuno al senato credo sia un male minore indispensabile, però penso che sia molto meglio se ognuno si prendesse le proprie responsabilità, ci si auto organizzasse, ci si auto governasse insomma, e non mi piace in generale l’idea e il concetto stesso di governo, di qualcuno che si occupa degli altri e gli altri non si possono occupare più di se stessi. Occuparsi degli altri significa aiutare qualcuno ma il governante non aiuta qualcuno evidentemente.
Detto questo è chiaro che anche io faccio la distinzione tra un politico migliore e un politico mafioso, solo che se la faccio sugli altri non vorrei farla su di me, per cui potrei fare l’assessore in un piccolo comune, e lo farei come volontariato per un’organizzazione non governativa per il resto penso, come dice Luciano Canfora, che il politico sia sempre un bugiardo per cui preferisco stare dalla parte di chi inventa, per motivi letterari, piuttosto che dalla parte di chi inventa per motivi istituzionali.
Il Monologo, lo Stand-up teatrale, lo dobbiamo considerare un virtuosismo psico-fisico dell’istrione che vuole mostrare al mondo il suo talento oppure è solo un modo, tipo, forma di fare spettacolo?
Forse entrambe le cose. L’attore monologante senza lo spettatore è solo uno che parla da solo e nel migliore dei casi fa un esercizio che serve a se stessi. Penso però che faccia esercizio anche chi racconta storie a qualcun altro in una dimensione non teatrale. Gerardo Guccini, che è un amico, insegna a Bologna, dice che esistono attori che fanno narrazione, ma non sono dei narratori,ed esistono dei narratori, che raccontano, ma non sono attori, nel senso che esistono attori che vanno in scena e recitano i loro monologhi, ma non stanno facendo narrazione, hanno imparato a memoria un testo e lo interpretano , interpretando un personaggio, mentre ci sono attori narratori che vanno in scena e raccontano delle storie. Magari sono meno bravi degli attori però vanno in scena e raccontano la loro storia. Ecco, io faccio parte di questa seconda categoria, di attori forse meno bravi che però narrano, raccontano storie. Poi ci sono delle persone che non fanno teatro e che forse nemmeno vanno a teatro ma che provano soddisfazione nel raccontare delle storie. E Gerardo dice che certe volte questa gente fa pure tanti figli per avere qualcuno a cui raccontarle, e queste sono le persone che noi conosciamo al bar, incontriamo a scuola, oppure alcuni insegnanti, oppure è il nostro collega di lavoro anche se lavoriamo in fabbrica. Insomma, persone che in qualche maniera provano,come me, soddisfazione nel raccontare delle storie e per questa gente quindi significa anche fare un esercizio mentale. Raccontare il mondo significa non crearlo come ha fatto Dio, ma come ha fatto Adamo, noi raccontiamo per dare un nome alla nostra identità, agli oggetti a quello che succede, alle cose che ci circondano.
Ed il famoso monologo di Marco Paolini sul Vajont come lo classifica? Dopo tanti anni stanno ancora pensando a farci una centrale idroelettrica da quelle parti.
Il Vajont è una cosa abbastanza particolare se non unica. Prima di allora Marco Paolini aveva fatto degli spettacoli molto teatrali quindi molto poco narrati, interpretando tutta una serie di personaggi in una dimensione di interpretazione leggera cioè senza grandi scenografie, però non è un caso che dei suoi quattro album, la regia dei due album come il monologo del Vajont sono di Gabriele Vacis quindi di un regista molto regista, molto presente e il monologo sul Vajont è stato un po’ un cambio di registro che ha segnato il cambiamento della sua scrittura successiva. Io credo che lui sia un grande attore drammaturgo che con gli strumenti che ha a disposizione riesce a rendere al meglio sulla scena, e che il Vajont sia stato un caso unico nella sua produzione perché lui non ha semplicemente costruito una drammaturgia, ma l’ha costruita a partire da elementi straordinari che è la storia stessa del Vajont. Io probabilmente sono un attore meno bravo di Marco, e forse anche meno bravo come drammaturgo, ma faccio un lavoro diverso di ricerca spesso più lungo e complicato , lui è molto più bravo di me se gli danno un libro in mano. È molto bravo a portarlo in scena, riesce a raccontare qualsiasi cosa.
Lei è il vincitore del premio Volponi della precedente edizione (2009). È tornato nelle Marche per ricambiare il favore che le hanno fatto oppure perché è innamorato della nostra terra? Che cosa le piace delle Marche?
In maniera molto meno poetica sono tornato perché mi hanno chiamato, ma sono tornato molto volentieri. Passare per le Marche mi fa sempre una strana impressione. Quando si passa in tournée normalmente si percorre l’autostrada e si vive questa dimensione antimarchigiana del territorio costiero balneare che fa impressione. Queste tonnellate di cemento che arrivano fino ad un palmo dall’acqua mostrano come non ci sia stata, nel secolo passato, un minimo di attenzione alla costa, per cui si vedono questi terribili grattacieli in mezzo alle villette poi però basta andare cinquecento metri all’interno per trovare immediatamente un altro paesaggio. Si passa da una specie di Rimini spalmata su tutta la costa che si stende oltre le Marche ed arriva fino all’Abruzzo ai paesaggi dell’Ariosto. Paesaggi meno visti e meno conosciuti, più rurali rispetto alla Toscana. Vedi un paesaggio spaventosamente bello e completamente distanti dall’idea di un turismo facile che si avverte lungo la costa. Non tutta la costa è così…però… autostrada e ferrovia passano l’uno accanto all’altra e ti mostrano sempre lo stesso mare cementificato….
La nostra è una bella terra, dove si vive tanto bene, tutti ce lo dicono ma noi non sembriamo crederci abbastanza… ci dica un difetto dei marchigiani…
Questo non lo so….
…e quanto di marchigiano c’è in Ascanio Celestini?
…io vivo nella stessa periferia dove sono nato per cui la vita di provincia in qualche maniera se non degenera nell’isolamento si avvicina molto di più ad un idea di decrescita che dovremmo imboccare. L’idea del piccolo centro, della comunità che si conosce, se non diventa chiusa, se non controlla e non si trasforma in un ghetto imbocca una strada interessante anche dal punto di vista dell’auto organizzazione. È curioso vedere che nei piccoli centri marchigiani ci siano dei teatri. Significa che nel tempo si è sentito il bisogno di avere un luogo pubblico - anche se poi spesso i palchetti erano acquistati da privati che se li tenevano per generazioni – dove la comunità si incontra.
Io non vengo dalla provincia ma da una borgata ma insomma si fa una vita molto simile con tutta la degenerazione della provincia, del fatto che nel momento in cui esce fuori dalla condizione di estrema povertà si chiude, nel momento in cui il borgataro c’ha due lire da spendere tira su il muro della propria baracca e si costruisce la propria villetta, appena può si compra il Suv esce di casa solo con il fuoristrada.
Di marchigiano ho la cultura della provincia, del cercare dei riferimenti minimi. Non mi piace vivere la città fatta di cento impegni al giorno. Vivo nel comune di Roma ma la frequento come uno che vive a Rieti o a Tivoli. Vado per una mostra, per il cinema, ma per il resto del tempo sto nella piccola comunità che è la borgata in cui vivo.
Noi abbiamo il Teatro delle Api e il direttore artistico è Neri Marcorè. A lei in quale teatro piacerebbe fare il direttore artistico?
Nessun teatro, io non potrei diventare il direttore artistico di nessun teatro anche perché chiedo molto ad un direttore artistico sia come spettatore sia come artista. Quando 11 anni fa incontrai per la prima volta Mario Martone, che era il direttore del teatro stabile di Roma, il teatro “Argentina”, Mario si occupava pure delle sedie da portare nello spazio in “India”, si preoccupava di visionare tutti i progetti, andare in giro a visionare gli spettacoli. Un direttore del teatro per me deve essere sempre presente. Un direttore del teatro deve essere uno che al massimo fa una sola produzione propria in un anno ma per il resto non può fare altre cose, altrimenti è solo un prestanome e questa è una brutta cosa. In quel caso non devi fare il direttore ma il presidente. un presidente è una carica onorifica, la tessera numero uno dell’associazione.
Io non potrei fare il direttore artistico.
Quando mi è stato proposto per un teatro lo avrei fatto volentieri. Avrei cambiato casa e per tre anni mi sarei stabilito fuori regione ed avrei fatto un lavoro sul territorio. Ma non hanno accettato la mia proposta perché a loro non serviva una figura del genere perché già c’erano i funzionari comunali che se ne occupavano. Avevano solo bisogno di uno che mettesse il nome e la firma e andasse a far spettacoli, solo come “richiamo”. Posso richiamare gente se vado ad una manifestazione politica dai No-TAV in Val di Susa e se la mia presenta può essere utile per portare cinquecento persone ad un presidio umanistico lo faccio volentieri, ma non lo faccio per avere decine di migliaia di euro al mese e mettere il mio nome su un cartellone.
Fare il direttore è una cosa molto bella ma bisogna avere tempo perché poi li vedi quando arrivi nei teatri, vedi subito se c’è una passione dietro. Per prima cosa ti fanno fare tutto il giro, ti fanno vedere i camerini, ti fanno vedere come hanno messo a posto i bagni, se c’è una foresteria sopra, ti dicono dove si mangia, ti raccontano le battaglie che hanno fatto per tenere in piedi il teatro….ecco io quello farei ma certo non da un giorno all’altro. Se me lo chiedessero oggi risponderei nel 2015…o qualcosa del genere…se fai il direttore di un teatro ti ci devi dedicare, ci si deve dedicare come si dedica il gestore di un ristorante…si può essere il titolare di un ristorante e non andare mai nel proprio ristorante e non sapere nemmeno quello che cucinano oppure dare una letta al menù una volta al mese….insomma il cartellone di una stagione teatrale è almeno quanto un menù per cui devi essere almeno il cuoco del ristorante…
di Laura Gioventù