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Laura Gioventù incontra Umberto Broccoli

Seconda intervista. “Poi non è che la vita vada come tu te la immagini. Fa la sua strada. E tu la tua. E non sono la stessa strada."

Laura Gioventù incontra Umberto Broccoli

Fermo, sabato 28 agosto 2010
Il penultimo giorno della parentesi Fermana, Umberto Broccoli torna a giocare ancora con me.
L’intervista è diversa dalla precedente ma sempre da me guidata.
Le domande sono diventate cinquanta. Mentre nella prima erano scritte su pezzi di carta piegati ed estratte senza la possibilità di leggerle, oggi invece sono stampate su pezzi di carte di tre differenti forme geometriche (quadrati, triangoli e cerchi) e sono aperte.

Ecco le 5 domande scelte dal Professor Broccoli in questo secondo appuntamento.

Domanda n. 1

“Quando certi uomini di teatro sollecitano la partecipazione viva del pubblico ai loro spettacoli dovrebbero meditare sui pericoli cui vanno incontro.”Ennio Flaiano
 
Anche in radio è pericoloso far partecipare troppo il pubblico per evitare inutili confusioni e spostamenti, oppure è proprio la partecipazione e il coinvolgimento del pubblico che determina il successo delle sue trasmissioni radiofoniche?

Innanzi tutto dobbiamo chiarirci le idee sul discorso del pubblico.
La radio è nata per il pubblico e la radio è l’evoluzione del teatro. Nel senso che mentre il cinema ha il suo corrispettivo nella televisione, la radio nasce per i lombi del teatro. La prima radio si faceva dentro i teatri, si andava con il microfono e si trasmettevano i grandi concerti. Partendo da questo presupposto, dobbiamo poi fare chiarezza sulla partecipazione del pubblico. Il pubblico deve fare il pubblico, stare lì e sentire, apprezzare o non apprezzare se la cosa non è meritevole. Ma che si possa fare uno spettacolo con il pubblico, su quello che era uno degli stilemi della grande improvvisazione degli anni settanta, dove io scendo in mezzo agli spettatori, faccio le cose con loro, ed il pubblico diventa il protagonista, questo è un eccesso. Eccesso che, secondo me, può avere senso solamente a livello sperimentale perché la realtà è un’altra. La realtà è che c’è uno spettacolo, il pubblico vede e partecipa, apprezza o non apprezza. Quel metro, settanta centimetri o due metri, insomma, la distanza che c’è dal palcoscenico al pubblico non sono superabili. Da una parte c’è chi fa lo spettacolo e dall’altra chi lo vede e lo vive.
Quello che dice Flaiano va interpretato in questa direzione. Da questo punto di vista lui era un accademico e un rigoroso del teatro.

 
Domanda n. 2

“Siamo figli di mondi diversi una sola memoria
Che cancella e disegna distratta la stessa storia”

 Ti scatterò una foto – Tiziano Ferro
 
Con l’invenzione della fotografia e del cinema si sta perdendo il senso della morte come evento storico, oramai sembrano tutti ancora vivi e vegeti vedendoli alla televisione. Questo strano fenomeno facilita le conclusioni degli storici oppure la fa diventare come un riassunto dell’eterno reality che è la vita di tutti noi?

Noi abbiamo perso il rapporto con la morte. Questo è verissimo, la domanda dice una cosa giustissima.
Faceva parte delle società primitive precedenti la nostra e lo abbiamo perduto negli ultimi ottant’anni. All’inizio del secolo scorso ed ancora oggi nelle società contadine la morte si accompagna. Non si lascia morire un vecchio in ospedale o da solo ma la morte viene vissuta come la fase finale della vita.
Nella società odierna questo valore è completamente perduto. Il compianto, che vuol dire appunto piangere insieme, partecipare, è un aspetto che è degenerato peggiorando ulteriormente negli ultimi anni televisivi.
Gli anni televisivi hanno plastificato tutto. Quello che si vede in televisione non è reale. Nel senso che nessuna delle icone televisive, uomo o donna che sia, si incontra per strada. Penso a determinati atteggiamenti clauneschi di gente che si veste e trucca in una certa maniera. Quello è veramente un barocchismo che non appartiene alla vita quotidiana. È fuori. È totale finzione. Del reato io dico sempre che per andare in televisione bisogna truccarsi, oppure tingersi i capelli. In teatro oppure in radio non ce n’è bisogno. Sei tu. Senz’altro la civiltà della fotografia è completamente differente da quella che è la civiltà delle immagini. Benché queste siano sempre figure, ma in movimento.
Non c’è del moralismo in questo, è semplicemente l’osservazione di un fatto.
Il fatto è che quello che si vede per strada non è quello che si vede in televisione. Punto.
Parlo di spettacolo, ovviamente.

Domanda n. 3

Non domandarmi dove porta la strada, seguila e cammina soltanto. La strada ci farà procedere.
E' Stato Molto Bello di Franco Battiato
 
Quale è la strada che sta seguendo?


Per altro è una poesia di Evtushenko. Franco Battiato e Mario Sgalambro hanno messo in canzone una poesia di Evgenij Evtushenko, se non ricordo male. La strada che sto seguendo è quella che dice il poeta russo e che cantano Battiato e Sgalandro. È la strada che mi porta da qualche parte. Tendenzialmente ho scoperto che più ci si prefigura un progetto, un percorso, un andare da un punto ad un altro, più diventa complicato. Non voglio certo dire che non ci si riesca, ma a volte si fa molta difficoltà. Spesso la strada della vita ti porta su percorsi completamente differenti che mai ti saresti aspettato di percorrere per cui non domandarti dove porta la strada, seguila e cammina soltanto! Trovo giustissima questa citazione.

Domanda n. 4

Se le dico Marche quale è la prima cosa che le viene in mente?


Il paesaggio. Penso al suo paesaggio che non è come quello umbro e toscano. È marchigiano, appunto.
Penso all’ordine quasi musicale del panorama, quell’ordine che il pittore Tullio Pericoli esprime perfettamente nei paesaggi e nei ritratti della mostra «Lineamenti. Volto e paesaggio» in esposizione presso il museo dell’Ara Pacis di Roma.

Se le dico Fermo?


Penso a sindaco Saturnino Di Ruscio. Sembra una stupidaggine, ma è così, e lo dico, con fermezza, perché il mio rapporto con Fermo è stato sempre mediato dal sindaco. All’inizio con molta diffidenza, adesso con una maggiore consapevolezza. Non la si può ancora chiamare un’amicizia, ma ci conosciamo da cinque anni. Lui per esempio è una persona che è quello che dice e devo riconoscere che è una qualità molto rara, non soltanto nella politica ma soprattutto nel panorama generale dei rapporti umani. Superando la persona, se penso a Fermo mi viene in mente il colore dei mattoni. Questa specie di grande forno nel quale siamo, un forno di mattoni, un forno nel quale si possono cuocere bene le pizze, dove in estate il caldo diventa caldissimo e d’inverno il freddo si fa temperato. Tutto questo sposato con una pulizia incredibile della cittadina. Non volendo prescindere dalla persona Saturnino, tutto il resto è mattone, mattone ovunque, bello, caldo, avvolgente. Siamo circondati dai mattoni ed è bellissimo perché siamo abituati a vedere le case intonacate. Qui invece mi sembra quasi di vedere i lavoratori che mettono uno sopra l’altro i mattoni per costruire palazzi e Chiese.

Se le dico Roma?

A Roma ci sono le mie radici. Paradossalmente mi viene in mente Roma 1960. Adesso sembra stantio, ma siamo stati i primi a parlarne in tempi non sospetti. Il 25 agosto del ’60 veniva inaugurata la XVII Olimpiade
 di Roma. Recentemente mi è capitato di rivedere in televisione il film “La grande Olimpiade”di Romolo Marcellini proprio di quell’anno. Per motivi indipendenti dalla mia volontà, per il semplice fatto di essere nato prima, ricordo perfettamente quella Roma, i colori della città e gli autobus verdi e neri. Una città che stava vivendo un grandissimo sviluppo urbano e urbanistico accanto ad una campagna che poi sarebbe stata aggredita dalla speculazione edilizia, da uno sviluppo esagerato e disordinato di una urbanizzazione non studiata. È giusto urbanizzare, non è che possiamo cristallizzare tutto, ma non è giusto buttare cemento armato di qua e di là come se niente fosse creando queste periferie dormitorio che sono veramente una cosa sulla quale riflettere. Rispondendo in maniera banale, mi sarebbe potuto venir in mente i miei studi, il Colosseo e così via. Invece penso alla Roma del 1960, che era ancora la Roma del dopoguerra e che da quel momento in poi diventerà un’altra cosa, la Roma che poi ha portato a quella del giorno d’oggi.

Quindi una data come segno di un passaggio?

Sì, io non credo alle date come segno di passaggio, ma in questo caso la data è il segno del cambiamento. Come anche il 476 d.C. quando Roma cade per la prima volta sotto i colpi dell’esercito invasore. I barbari, le popolazioni straniere, entrano a Roma  e dal quel momento la città inizia una nuova vita.

E se le dico Italia, che cosa le viene in mente?

Pensando all’Italia non mi viene in mente niente di particolare fuorché tutto.
La conosco abbastanza bene e penso ad un aspetto un po’ più antico e nascosto. Penso a quando il nome stesso di questa nazione è stato una parola nella quale generazioni intere si sono riconosciute e, senza arrivare alla retorica di De Amicis, il tricolore era simbolo di unità. Credo, senza retorica appunto, ad un minimo di patriottismo. Pensando all’Italia mi viene in mente un’unica nazione con tutte le sue differenze -siamo unità tra differenze- che ha le Alpi come confine ed il mare come altro confine. Poi penso anche ad una forma di forte orgoglio nazionale, alla riscoperta delle nostre radici. Siamo italiani e siamo differenti dai francesi, dai tedeschi, dai nordafricani, dagli slavi. Siamo italiani e siamo abbastanza riconoscibili come ethos.


Domanda n. 5

Il vero viaggio di scoperta, non consiste nel cercare nuove terre, ma nell'avere nuovi occhi.
Voltaire

Voltaire, padre dell’illuminismo. Mi riconosco perfettamente in tutto questo. Non avendo la passione di viaggiare, anzi, detestandolo, sono convinto che il viaggio si possa fare anche nel quartiere di fronte casa cambiando gli occhi. Il cambiamento siamo noi. Forse chi fa viaggi stupefacenti evidentemente non ha tranquillità interiore. Basterebbe immaginare di cambiare gli occhi che si scopre il bello anche a Passoscuro, una piccola località vicino Roma.

Ed infine una mia domanda per concludere il gioco.
 
Forma e sostanza: Lei ha scelto due domande racchiuse nei cerchi, due nei triangoli ed una nel quadrato; possiamo dire che nello scegliere una domanda piuttosto che un’altra c’è stata una piccola influenza sulla forma? 

Quasi non c’ho prestato attenzione. Ho fatto caso ai tanti fogli di forma diversa sopra al tavolo ma non so se Voltaire sta sul rotondo o sul quadrato oppure Battiato sul triangolo. Nello scegliere, potendo leggere le domande, ho solo fatto caso alla sostanza.

“Il mezzo è il messaggio” diceva Marshall McLuhan

È possibile che nello studiare la storia siamo stati più suggestionati dalla “forma” esteriore (miti, eroi, battaglie) piuttosto che dalla sostanza storica degli avvenimenti accaduti?


Purtroppo la storia la fanno i vincitori. Da sempre.
Non la scrive chi ha perso e quindi, inevitabilmente chi scrive e fa la storia sono i vincitori.
Noi siamo tutti figli della storia scritta dai vincitori ed è chiaro che ne siamo anche influenzati.
Quando pensiamo per esempio a Napoleone Bonaparte pensiamo a chi ha scritto di Napoleone, pensiamo a quello che è stato detto e quindi creiamo quella che si chiama mitopoiesi, creiamo dentro di noi un mito. Dal greco μυθοπο?ησις,  poie vuol dire “fare” e mithos è mito, quindi "creazione del mito". Noi creiamo un mito ed il più delle volte il mito non è realtà. La nostra operazione, in genere, anche nella vita quotidiana, dovrebbe essere quella di cercare di vedere qual è la sostanza reale delle cose, che cosa c’è dietro ad un fatto, una persona, un avvenimento. Capire dove si vuole andare a parare in sostanza. Credo sia questa la cosa più giusta.

Per quello che riguarda McLuhan, sulla questione che il mezzo possa diventare messaggio, sono state costruite intere biblioteche io però continuo a dire, che è il messaggio che governa e non il mezzo. Se si guarda il contorno, la cornice non sarà mai il quadro. È giusto che esista ma guardiamo il quadro. Ricordiamoci sempre che chi indica la luna con un dito, giusto un fesso guarda il dito e non la luna!

  di Laura Gioventù

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